Si chiama ‘Brace’ ed è quel tipo di progetto che rende onore a chi, attraverso lo sport, veicola anche al giorno d’oggi i suoi valori fondanti che a volte, troppo spesso, si perdono in un mondo condizionato da fattori esterni.
Scherzo del destino: la prima volta che ho sentito nominare questo progetto avevo erroneamente capito che si chiamasse ‘Brave’ che in italiano significa ‘coraggioso’. Perché, in fin dei conti, bisogna essere dei coraggiosi a lanciare un progetto pilota di inclusione nella società di migranti e di rifugiati politici attraverso il calcio. Questo è esattamente quello che muove ‘Brace’: dare una seconda possibilità a partire dallo sport a chi fugge dalla guerra e dalla paura della morte. Quattro realtà diverse tra loro (Italia, Spagna, Portogallo e Belgio) che remano nella stessa direzione per proporre all’Unione Europea un protocollo da poter poi mettere in atto in tutti i contesti in cui, a livello continentale, possa servire. Questa idea nel Nordmilano è arrivata grazie al Bresso 4, società oratoriana dove quei valori fondamentali che solo lo sport è in grado di promuovere contano più dei risultati. «La positività è inclusa nel mondo dello sport – racconta Antonio Zambelli, membro del consiglio direttivo del Bresso 4 -. Lo sport, quello vero, parla di giovani. Molto spesso si sentono considerazioni su di loro veramente brutte. I giovani ci mostrano in realtà di essere molto bravi se accompagnati da un mondo adulto responsabile».
Un modello che ‘impone’ anche l’integrazione di quei ragazzi meno fortunati arrivati a Bresso nel centro di accoglienza della Croce Rossa. Oggi il Bresso 4 conta la presenza di 30 rifugiati politici, ma negli ultimi anni ne sono passati oltre 120. L’idea di creare a Bresso una squadra di calcio formata da migranti e rifugiati politici affonda le sue radici nel 2016, da un ‘sogno’ del mister Alessandro Milani, oggi anche addetto stampa della Pro Sesto. «Milani vide i ragazzi ospiti del centro di accoglienza di Bresso giocare al Parco Nord a pallone – racconta Zambelli -. Giocavano, si divertivano ed erano tanti. Da lì l’idea: ‘Perché non farla diventare un’esperienza strutturata?’. Ne è nata una fantastica realtà che è diventata il progetto ‘Panafrica United’, un nome scelto dagli atleti della squadra stessa per dimostrare la loro provenienza da tanti Paesi diversi. Grazie all’aiuto del Csi, che ci ha aiutato nella modalità di tesserare dei giocatori senza documenti, abbiamo permesso a questi ragazzi di giocare i campionati nazionali». Ma non è tutto qui. «Abbiamo seguito i giocatori anche al di fuori del mondo dello sport, in supporto alla burocrazia e alla parte legale. Abbiamo raccontato storie di ragazzi che ora hanno famiglia, figli e un lavoro a tempo indeterminato: la positività è lampante».
Zambelli prosegue raccontando delle vere e proprie storie di vita che sono passate dal campo del Bresso 4: «Un ragazzo che non era stato convocato una volta chiese al mister ‘Perché non mi hai convocato?’. Per noi educatori è stato un grande segnale. Il problema non era più ‘domani sono vivo o sono morto’. Il problema era ‘domani gioco oppure non gioco’. Era entrato in una nuova complicata vita, ma più bella e sicura. Questa è la logica per cui stiamo facendo questo tipo di progetti». Ma non solo giocatori: a Bresso si fa accoglienza, qualunque sia il ruolo che una persona ricopre nel mondo del calcio.
La storia di Siyad è una storia a lieto fine: dopo l’interesse del Bresso 4, dove è ancora volontario, è tornato ad arbitrare, facendo il suo esordio italiano in un Inter-Atalanta dei campionati giovanili. «È stata una cosa bellissima: la rete e la stima tra le persone hanno funzionato. L’Aia si è dimostrata sensibilissima, così Siyad è tornato ad arbitrare. Ora sta facendo la sua carriera ufficiale che dovrà guadagnarsi: è stato bravissimo, era l’unica persona non emozionata quel giorno perché da arbitro vero, l’arbitro non si emoziona. Ci ha dato un esempio incredibile, è una storia che ci fa bene: avere storie positive è un bene per tutto il movimento perché è possibile attraverso il calcio dare vite nuove e crescere insieme alle persone».
Tornando invece alla stretta attualità, nei giorni scorsi sul campo del Bresso 4 è andato in scena un torneo che è stata l’occasione ideale per fare il punto della situazione sullo stato del progetto. A Bresso sono arrivati i rappresentanti portoghesi, spagnoli e belgi. Un’occasione che è stata vissuta da tutti i ragazzi coinvolti, a prescindere dalla nazionalità di provenienza o del Paese di ‘adozione’, come una piccola Champions League. «La nostra comunità è formata da persone che provengono da più di 120 nazioni – spiegano Moises Rodriguez e Juan Lopez, rispettivamente vicesindaco e reggente della città dello sport di Rubì, un Comune di 80mila abitanti della Catalogna, a una trentina di chilometri da Barcellona -. Viviamo tutto questo con molto orgoglio: le differenze quanto metti in gioco qualcosa in comune, qualcosa di buono, non esistono. Oggi possiamo dire che ‘Brace’ è un successo. Per noi è importante che vinca il calcio e la convivenza. Un’occasione come questa qui a Bresso è da valorizzare: l’importante è che questi ragazzi si divertano facendo lo sport che gli piace e che attraverso lo sport creino coesione». Aggiunge Xavi Mas, vicepresidente del Can Mir, la società che a Rubì attua le stesse buone pratiche di inclusione del Bresso 4: «In qualche modo dobbiamo cambiare la mentalità della società in Europa sul tema. Crediamo che attraverso questo progetto insieme agli amici del Bresso 4 stiamo provando a farlo: già questo è importantissimo».
Chi ha vinto il torneo? Non è importante: ha vinto ‘Brace’, ha vinto lo Sport, quello con la ‘S’ maiuscola.