Sono matematiche, ricercatrici, medici, biologhe. Le professioniste nel settore aumentano ma le posizioni di responsabilità sono ancora affidate agli uomini
La professoressa che ricorda le donne nella scienza «L’educazione alla parità è tutto»
«Il mio amore per la matematica è nato in modo molto semplice: fin da bambina la consideravo un bel gioco. A molti piace quando capiscono a cosa serve, io amavo il procedimento di astrazione che la matematica implica». Sara Sesti, insegnante di matematica cresciuta nella Cinisello Balsamo degli anni Settanta, è autrice della prima ricerca italiana sul rapporto donne e scienza per il Centro di Ricerca Pristem dell’Università Bocconi di Milano. «A me sembrava di portare un insegnamento dal quale le donne erano escluse, ho deciso di condurre la ricerca per mettermi in rapporto con l’insegnamento che portavo. Volevo capire le mie antenate per non sentirmi più un’immigrata nel territorio straniero della scienza». Dal lavoro della professoressa è stato pubblicato anche un libro: ‘Scienziate nel tempo’ (Edizioni Lud), che raccoglie 70 biografie di donne che si sono distinte in campo scientifico prima ancora che le università aprissero loro le porte. La prima università ad accettare iscrizioni di studentesse è stato il politecnico di Zurigo, nel 1867. Prima della metà dell’800, i luoghi di produzione del sapere erano riservati agli uomini. «C’è uno stereotipo comune sulle donne di scienza: le matematiche sono considerate persone stravaganti e un po’ ridicole, anche se sicuramente c’è un cambiamento culturale in atto. Quella delle scienziate è un’onda che sale, ora le donne sono presenti al 60 per cento nei laboratori italiani, anche se è ancora bassa la ‘quota femminile’ nel campo delle stem. Le cosiddette ‘scienze dure’, come la fisica e l’ingegneria». Secondo la professoressa, l’uguaglianza inizia in famiglia: «Importantissimi per insegnare la parità sono i giochi, che ancora vedono una discriminazione tra quelli ‘femminili’, rivolti alla cura, e ‘maschili’. Differenza che esiste solo negli occhi di guarda».
Giulia, expat a 31 anni: «Faccio ricerca sui tumori, è soprattutto una vocazione»
Giulia Falgari ha 31 anni e una passione: la biologia, che l’ha portata a mille e trecento chilometri da Cusano Milanino, dove è nata e cresciuta. La giovane cusanese ha studiato biologia alla Statale di Milano, un Erasmus in Inghilterra, un anno come assistente di ricerca a Pavia e poi il ritorno nel Regno Unito, un dottorato di ricerca sui tumori e ora, dopo tre anni e mezzo di borsa di studio, all’alba della discussione del progetto di tesi, Giulia ha preso la sua decisione: rimanere in Inghilterra e cercare lavoro lì. «La passione per la scienza è nata alle medie – racconta Giulia -. Mi ricordo ancora l’emozione di vedere al microscopio i batteri dello stagno durante l’ora di Biologia! La passione poi è cresciuta e si è rafforzata sopratutto con la perdita, a causa di un tumore, di un familiare a me molto vicino. La vicenda mi ha portato a scegliere la ricerca sui tumori come professione e come vocazione per aiutare i pazienti affetti da questa malattia molto aggressiva e debilitante». Sulla scelta di rimanere a Londra, la giovane ricercatrice è pragmatica: «Londra e dintorni offrono un fortissimo settore di ‘ricerca e sviluppo’ nel campo farmaceutico, che in Italia è più limitato o si conduce all’interno delle università. La mia scelta ricade invece su ricerca in biotech abbastanza grandi, per questo la zona è ottima. In più, amo la diversità culturale frutto di ampia immigrazione che Londra offre in ambito lavorativo e non solo. In Italia questo arricchimento culturale dato dalla diversità è ancora ad uno stadio embrionale o quasi osteggiato». Secondo l’esperienza lavorativa di Giulia, il campo della ricerca vede un’alta presenza di donne: «Qui in Uk c’è molta pressione per avere donne in ruoli manageriali, commissioni con il 50 per cento di donne, si compilano report e statistiche e si conducono ricerche per far emergere la disparità salariale nel campo scientifico».
Rossana,
giovane medico: «In facoltà e negli ospedali è ancora forte il gender gap»
Ventinove anni, una laurea in medicina e una specializzazione in malattie infettive che l’aspetta. Rossana Pitozzi, nata e cresciuta a Sesto San Giovanni, ha sempre avuto le idee chiare sul suo futuro: avrebbe fatto il medico. «Inizialmente ho amato più l’aspetto sociale della medicina e gli strumenti che si possono mettere in campo con questa professione, poi ho iniziato ad apprezzare profondamente il valore del ragionamento per ipotesi, i diversi modi di approcciare un problema». Quando si parla degli anni di studio, la facoltà di medicina presenta un’alta percentuale di ragazze, più alta di quella maschile, ma la situazione si capovolge nel mondo del lavoro: «La medicina del territorio (medici di famiglia, sert, ambulatorio, ginecologi) e l’ambito di medicina interna in ospedale hanno una grandissima presenza femminile, mentre la chirurgia è a netta prevalenza maschile. Per cui i professori universitari, che spesso sono anche primari in ospedale, sono quasi tutti uomini. Infatti è necessario un grandissimo impegno anche in termini di tempo e si pensa ancora che le donne debbano preferire la cura dei figli o dei mariti alla carriera». Il gender gap mostra quindi come in facoltà i titolari di cattedre siano uomini mentre i servizi territoriali siano in mano alle donne. «Questa netta separazione di ambiti – aggiunge Rossana – si ripercuote anche nell’esperienza di tirocinio. Quando ho iniziato la pratica in campo chirurgico, i primari erano tutti uomini, e ho notato un approccio svilente alla ragazza che entra in reparto chirurgico. Probabilmente giocano il machismo e il pregiudizio per quella che è ancora considerata una disciplina da uomini. Purtroppo però in questo modo si scoraggiano nuove donne a intraprendere queste specializzazioni, che di solito si scelgono per ambiti che ti possono affascinare ma contemporaneamente ti fanno sentire capace e valorizzano il tuo essere medico».
Alice Dal Chiele è al terzo anno di Scienze Naturali «Voglio diventare una biologa marina e lavorare sul campo»
Alice Dal Chiele ha 21 anni e un sogno nel cassetto: diventare una biologa marina. Per farlo, sta frequentando il terzo anno della facoltà di Scienze Tecnologie, corso di laurea triennale in Scienze Naturali, all’Università degli Studi di Milano. «Il mio percorso di studi – racconta – porta a diventare naturalisti. Ma a me piacciono molto gli animali, con lo studio ho capito che nella laurea magistrale seguirò proprio Biologia Marina». Una specializzazione che la porterà a lavorare in laboratorio, negli acquari e, soprattutto, direttamente sul campo.
«Ho pensato – confessa – di andare all’estero al termine dei miei studi. Nel mio caso, comunque, aiuta il fatto di avere una doppia nazionalità». Però secondo Alice, il problema di tentare fortuna all’estero non riguarda esclusivamente le donne, ma più in generale i neo laureati: «È una grossa perdita per l’Italia, perché comunque l’Università investe, lo Stato investe su di noi, che poi andiamo via. Credo che sia anche ‘brutto’ sentire di persone che negli Stati Uniti, o più in generale in qualunque altro Paese europeo o meno, con un cognome italiano sono dovute andare fuori per fare carriera e ottenere risultati utili». L’attenzione sulla questione di genere, soprattutto nel mondo della scienza, per Alice andrebbe posta su altro: «Non ho ancora iniziato realmente a sperimentare dei lavori in laboratorio. Il mio piano di studi prevede ancora molte lezioni e tanti insegnamenti teorici, prima della pratica. Non sono ancora entrata realmente nel mondo del laboratorio, ma credo che assolutamente, su questa questione, si dovrebbe cercare di spingere forte sull’acceleratore. Sono un’aspirante scienziata, è una cosa importante e sono assolutamente sicura che siamo capaci anche noi donne di lavorare come i colleghi uomini».
Cinzia Brunelli dell’Istituto dei Tumori
«Fondamentale l’importanza della ricerca per la cura dei pazienti»
Cinzia Brunelli è originaria di Sesto San Giovanni, laureata in Statistica all’Università di Padova e da qualche anno è una ricercatrice all’Istituto dei Tumori di Milano. Nel suo passato, un’esperienza in Norvegia, all’Università di Trondheim. Una soluzione, quella di guardare all’estero, che secondo Brunelli ha una spiegazione precisa: «È un problema dovuto a ragioni economiche e culturali. Economiche, perché le opportunità all’estero sono migliori. Gli stipendi, per esempio, sono più alti, questo ti può garantire un diverso stile di vita. Mentre per quanto riguarda l’aspetto culturale, fuori dall’Italia c’è una maggiore strutturazione della carriera. In ambito accademico ci sono determinati passi da seguire, tutti strutturati. In Italia la sensazione è che le cose non siano così ben strutturate. Un ragazzo laureato ha poca idea di quello che succederà in futuro. L’estero diventa quindi una soluzione più appetibile per quello: viene data subito dignità, c’è più meritocrazia. Non è tutto perfetto, ma i passaggi e i riconoscimenti sono strutturati meglio». La ricercatrice all’Istituto dei Tumori sottolinea quanto sia fondamentale l’importanza che la ricerca può avere nella cura dei pazienti. «Per studiare se gli interventi al paziente sono efficaci, c’è tutto uno schema di produzioni delle evidenze basato sulla metodologia della ricerca. In questo processo anche il paziente può dare un contributo quando gli viene richiesto. Ogni contributo è un piccolo passo avanti». La forza delle donne al servizio della ricerca, nonostante un problema culturale alla base: «La cura della famiglia è quasi sempre sulle nostre spalle. Siamo svantaggiate nel fare carriera, molte donne non la cercano. Questa mentalità deve cambiare, sotto questo aspetto c’è la necessità di migliorare».