In Lombardia è stato attivato il piano per prevenire il rischio di suicidi in carcere: si tratta di azioni che mirano a dare un’attenzione a 360 gradi nei confronti del detenuto, con un monitoraggio costante attraverso il lavoro di uno staff multidisciplinare.
La delibera sull’aggiornamento del piano regionale per la prevenzione del rischio di suicidi negli istituti penitenziari per adulti è stata approvata dalla giunta regionale su proposta della vicepresidente e assessore al Welfare Letizia Moratti. La Lombardia conta sul proprio territorio 18 istituti penitenziari sui 190 nazionali e nelle sue strutture c’è il maggior numero di persone sottoposte a regime carcerario.
«Il piano regionale approvato – spiega Moratti – utilizza la stessa metodologia risultata vincente e più volte citata dall’Organizzazione mondiale della sanità in riferimento alla Lombardia durante la pandemia: una stretta alleanza tra il mondo penitenziario e quello sanitario per prevenire i suicidi, purtroppo aumentati durante il periodo dell’epidemia, anche a causa delle restrizioni che hanno reso ancora più afflittivo il momento della carcerazione, è infatti necessario giocare in squadra».
Soprattutto nei momenti più difficili della carcerazione, dunque, la valutazione medica deve essere accompagnata da una costante attenzione di tutto il contesto ai comportamenti del soggetto. «Un momento di grande criticità – aggiunge l’assessore – è dato dall’ingresso in istituto e dall’inizio della vita detentiva, con la conseguente necessità di ambientarsi a un nuovo contesto. In quest’ottica le modalità di accoglienza rivestono particolare importanza e consentono una prima e immediata valutazione del rischio autolesivo e suicidario».
I direttori delle strutture penitenziarie e sanitarie provvederanno a nominare per le rispettive competenze uno staff multidisciplinare, composto da rappresentanti del personale penitenziario (polizia penitenziaria, funzionario giuridico pedagogico, psicologi, volontari) e sanitario (medici della struttura penitenziaria, personale infermieristico, personale Asst del dipartimento di salute mentale e dipendenze) qualificati e dotati di adeguati livelli di competenza e responsabilità.
«Attraverso il dialogo e il confronto, personale sanitario, penitenziario, psicologi, volontari, ma anche i familiari, gli avvocati difensori e i magistrati – prosegue Moratti – dovranno essere in grado di cogliere anche il minimo segnale di disagio o campanello d’allarme che possa far pensare a gesti estremi. In questo senso, l’interruzione della corrispondenza in partenza o in arrivo, la mancata volontà di incontrare i familiari o la mancata partecipazione a momenti di condivisione con altri detenuti possono essere rivelatori di un malessere che va subito intercettato. A chi vive il mondo carcerario chiediamo un grosso sforzo per essere vigili sentinelle di queste eventuali situazioni».