Era il mese di ottobre 2017 quando la rivista americana The New Yorker pubblicò l’inchiesta, a firma del giornalista Ronan Farrow, che fece tremare lo star system internazionale.
Nell’articolo (frutto di un’indagine lunga 10 mesi), il produttore hollywoodiano Harvey Weinstein veniva accusato da tredici donne di averle molestate o aggredite sessualmente, in un intervallo di tempo che andava dagli anni Novanta al 2015.
Da quell’inchiesta e dall’eco che ha suscitato è nato un movimento di donne che hanno iniziato a parlare di ciò che fino a quel momento era sempre rimasto un tabù: le molestie e gli episodi di sessismo sul lavoro. Il movimento si chiamava Me Too (in inglese: ‘anche io’), proprio come la nostra rubrica.
Abbiamo inaugurato il Gazzettino MeToo a settembre, dove raccogliamo le storie delle nostre lettrici e le raccontiamo senza filtri e senza giudizio. Per i media raccontare la violenza psicologica, le molestie e il sessismo è una grande sfida: nonostante esistano delle linee guida per giornalisti sul tema, spesso si incorre nell’errore di trattare l’intervistata come una persona che denuncia un crimine minore o, peggio, come un politico che deve giustificare e dimostrare nei dettagli le sue affermazioni.
Si utilizzano domande provocatorie e incalzanti o si tende a sminuire o non classificare come molestia l’accaduto. È il caso della recente intervista alla ciclista venticinquenne Maila Andreotti, che ha denunciato casi di violenza psicologica, o di quella alla sopravvissuta a femminicidio Lucia Panigalli.
I media hanno un’importante responsabilità nella corretta narrazione di fenomeni come il sessismo e al Gazzettino diamo il nostro contributo raccontando le vostre storie. Se vuoi aiutarci, scrivici la tua (che sarà pubblicata in forma completamente anonima) alla mail: redazione@ilgazzettinodisesto.it.
In carcere: «Avrebbe dovuto proteggermi, invece»
Una storia di molestia verbale come ce ne sono tante purtroppo. Quella di Cinzia però, è particolare per la sua crudezza e per il luogo in cui è avvenuta: il carcere. La giovane studentessa di Psicologia è al suo primo giorno di tirocinio nella struttura quando si rivolge al secondino: «Avevo bisogno di andare in bagno e gli chiedo dove ne trovo uno. Lui dice di accompagnarmi per motivi di sicurezza. Nel tragitto si avvicina e mi dice tranquillamente: ‘stai andando a rasarti la vagina?’. Mi allontano schifata, pervasa da un senso di insicurezza che mi ha ‘regalato’ proprio chi avrebbe dovuto proteggermi».
Al ristorante: «Per una barista essere trattata male è la norma»
«Ho lavorato per quasi 10 anni in un bar in provincia di Como – racconta Daniela, che ora ha 34 anni e ha smesso di fare la barista circa 6 anni fa -. Ho i capelli neri e gli occhi scuri ma ogni volta che un cliente si rivolgeva a me, lo faceva dicendomi: ‘Ehi bionda!’, una cosa che mi faceva imbestialire. Ho sempre risposto che avevo un nome e sarebbe stato educato chiederlo invece di chiamarmi in questo modo. Purtroppo però le stesse colleghe mi guardavano male quando cercavo di stabilire un po’ di rispetto, forse troppo spaventate per rispondere a tono».
In hotel: «Al collega uomo stanza più grande»
Anna, 40 anni, lavora in un famoso studio di post produzione cinematografica. Chiamata sui set di tutto il mondo per supervisionare le riprese, la donna (una delle uniche due supervisori di genere femminile in Italia) viaggia spesso per lavoro. «Dall’agenzia mi mandano solitamente con un producer, un uomo che ha circa la mia età e gestisce costi e relazioni con i clienti. Quando l’hotel, che riceve i nostri nomi ma non sa che io sono la responsabile, ci assegna le camere, lui riceve puntualmente la suite e io una camera standard. Pian piano abbiamo capito che succede perché chi lavora nell’accoglienza dà per scontato che sia lui, in quanto uomo, a ricoprire la carica di responsabile mentre io, essendo donna, sarei l’assistente. Tutto ciò è piuttosto demoralizzante».
Servizio a cura di Noemi Tediosi